Redigere il proprio Bilancio di Competenze

Come è stato ampliamente esposto nell’articolo “COS’E’ IL BILANCIO DI COMPETENZE”, si tratta di una modalità per delineare un percorso professionale, realizzato con spirito critico e disponibile, un momento di riflessione personale e di autoconsapevolezza fondamentale. 

Per utilizzare la nostra metafora, riflettiamo sulle nostre capacità di condurre la “nostra nave” e sulla rotta fino ad oggi percorsa, per comprendere meglio chi siamo oggi e stabilire, alla luce di queste nuove informazioni, in quale porto vogliamo arrivare (magari, per poi ripartire per un nuovo viaggio…).

Un percorso di introspezione e di autovalutazione condotto con modalità il più possibile oggettiva e, soprattutto, con una finalità costruttiva.

Viene redatto, in prima battuta, da soli, in un secondo momento, assieme al counselor, si esamina il quadro d’insieme approfondendo gli elementi emersi.

Requisito essenziale per l’orientamento è la motivazione del soggetto ad intraprendere questo percorso e quindi la disponibilità a “mettersi in gioco”.

L’assunto che sta alla base del Bilancio di Competenze è il seguente: dietro ai comportamenti ci sono le caratteristiche delle persone.

Le COMPETENZE vengono dedotte dai comportamenti adottati, prodotti da un insieme di conoscenze e da una serie di caratteristiche possedute dalla persona, non immediatamente osservabili e misurabili, quali: bisogni, valori e motivazione, tratti di personalità, intelligenza e attitudini, aspetti relativi all’immagine di sé e del proprio ruolo sociale. Queste caratteristiche sono in relazione causale con le prestazioni lavorative efficaci o superiori in un certo ruolo.

In altre parole sono una combinazione di qualità personali e conoscenze professionali che permettono di svolgere un ruolo professionale in maniera più o meno efficace ed eccellente.

Vediamo ora, in pratica, quali sono gli elementi che vanno esaminati:

1 – le proprie CONOSCENZE: ciò che sappiamo; riesaminando il proprio percorso formativo sono i titoli di studio e il sapere teorico acquisito su un certo tema, (ad es. conoscenze storiche, economiche, fisiche, biologiche, normative, geografiche, culturali, letterarie, ecc.)

2 – le ABILITA’: ciò che sappiamo fare, le capacità che possediamo di realizzare qualcosa, provenienti sia da esperienze lavorative che extraprofessionali

3 – le COMPETENZE: come eseguiamo certe attività, i comportamenti che adottiamo nei diversi contesti e situazioni, formati da una combinazione di caratteristiche personali e conoscenze, che in questo modo diventano esplicite; è quello che la psicologia della formazione identifica nel “saper essere” ;

Convenzionalmente si distinguono competenze

  • di base – le conoscenze e i requisiti minimi richiesti dal lavoro (ad es. conoscenze matematiche, verbali, ecc.)
  • tecnico-professionali – le conoscenze e capacità specifiche richieste per quel tipo di lavoro (ad es. contabili, informatiche, meccaniche, ecc.)
  • trasversali – non espressamente richieste nell’esercizio di un lavoro, ma che consentono di svolgerlo in modo esperto, rilevante, e che in un ultima analisi fanno la differenza tra i lavoratori – le cosiddette life skills o soft skills : capacità comunicative efficaci, relazionali, di ascolto, di negoziazione, decisionali, interpretative, di problem solving, di adattamento, di analisi, di autonomia, di lavorare in gruppo, di tolleranza allo stress, ecc.

4 – le proprie ATTITUDINI: sono le nostre potenzialità, cosa ci viene facile, in quali attività ci sentiamo più portati (considerando attività con cose fisiche, attività con persone, attività con informazioni, dati, idee, ecc.),

5 – gli INTERESSI, professionali e personali: rappresentano le aree di preferenza (e di rifiuto) in relazione a determinate attività lavorative; sono le attività che ci piacciono, che ci incuriosiscono e di cui andrebbero approfonditi gli elementi caratteristici, ad esempio chiedendo a chi fa proprio quel lavoro in che cosa consiste, gli aspetti meno evidenti, quelli più piacevoli e quelli meno gradevoli, ecc.
Consideriamo le attività svolte nei settori culturale-letterario, tecnico-scientifico, segreteria-amministrativo, artistico-creativo, assistenziale-educativo, del diritto e tutela delle persone-proprietà, attività di vendita e dei servizi alla persona.
Approfondiamo alcuni aspetti, ad es. se preferiamo un lavoro all’aperto, o che richieda spostamenti, se preferiamo lavorare in una piccola azienda o utilizzare nuovi strumenti, ecc.

6 – i propri VALORI PROFESSIONALI: cosa rappresenta per noi il lavoro, ciò che riteniamo preferibile o giusto o importante, e che ruolo riveste il lavoro nella nostra esistenza.
Legato a questi possiamo identificare qual è il nostro
ambiente lavorativo ideale.
La
scala di valori è l’organizzazione durevole di credenze e atteggiamenti su cos’è preferibile, giusto o buono – per noi – nella vita, strutturati gerarchicamente secondo un ordine di priorità ed importanza. Ciascuno ha la propria scala di valori – nessuna migliore o peggiore, giusta o sbagliata – che è unica e mutevole nel tempo. Conoscere la propria scala di valori significa comprendere a cosa diamo importanza, cosa ci interessa, a cosa non rinunciamo nelle nostre scelte.
Gli studi identificano alcune categorie di lavoratori (“creativo”, “tranquillo”, “rampante”, “duro”, “autonomo” e “sociale”) a seconda dei valori a cui si attribuisce maggiore importanza: un certo ambiente fisico, l’attività fisica, un ambiente di relazioni, l’autonomia e l’indipendenza operativa, le possibilità di carriera, la sicurezza del posto di lavoro, il guadagno economico, la routine o la variabilità dei compiti, i fattori estetici, la leadership, gli obiettivi da raggiungere o la professionalità richiesta, la disponibilità di tempo libero, la flessibilità di orari, lo sviluppo personale, il prestigio sociale o l’utilità sociale, ecc.

7 – il LOCUS OF CONTROL – attribuzioni causali: ciascuno di noi cerca di dare una spiegazione ai suoi successi e agli insuccessi o alle difficoltà che ha incontrato e che hanno ostacolato il raggiungimento di un certo risultato atteso.
Il locus of control può essere:

  • interno/esterno – attribuiamo a noi stessi oppure a qualcosa/qualcun altro la responsabilità dell’evento
  • permanente/transitorio – le cause che hanno determinato il successo o l’insuccesso sono viste come stabili e immodificabili oppure no
  • controllabile/incontrollabile – possiamo, oppure no, esercitare una certa influenza sull’evento
  • globale/specifico – quello che crediamo è generalizzato per ogni ambito della nostra vita oppure si identificano le cause caso per caso

Alla base dell’autostima sta proprio il modo di interpretare gli eventi, modalità influenzata, a sua volta, dalle aspettative e dalle credenze preesistenti: nel caso di bassa autostima la persona attribuirà a cause interne, stabili o permanenti, incontrollabili e globali (non ce la faccio, non ce la farò mai, la situazione non cambierà, sarà sempre così ed è così in ogni ambito), stile attribuzionale che è stato denominato con il termine di helplessness – impotenza.

8 – le nostre MODALITA’ DI COPING: (dall’inglese to cope, fronteggiare) riguardano il modo in cui affrontiamo le situazioni problematiche, stressanti, e quali strategie utilizziamo.
Ciascuno di noi, trovandosi in una situazione “difficile” elabora mentalmente le possibili soluzioni al problema, influenzato dalle caratteristiche personali, dal proprio “locus of control” (se ritiene cioè che la situazione sia stabile/instabile, se ha un certo potere nel modificarla, ecc.), dal proprio senso di auto-efficacia, dalle eventuali risorse su cui può contare, dalle opinioni che ha sull’evento, ecc.

Possiamo affrontare queste situazioni:

  • – cercando di meglio definire gli elementi del problema (approccio cognitivo)
  • – mettendo in atto una certa azione concreta (approccio comportamentale)
  • – in maniera più passiva, evitando di pensare alla situazione (distrazione) o addirittura negando il problema (con il diniego o la minimizzazione)
  • – focalizzandoci sul problema per modificarne la gravità oppure focalizzandoci sulle emozioni per diminuire l’impatto stressante che l’evento ha su di noi

Spesso una modalità di coping che si è dimostrata valida in una situazione diviene la modalità tipica adottata in futuro e in situazioni differenti, anche se non è la più efficace (abitudine)

9 – i nostri BISOGNI: sono molti gli approcci psicologici che hanno indagato la relazione tra bisogni e motivazione; lo psicologo americano Abraham Maslow, uno dei maggiori esponenti della psicologia umanistica, ha esposto una teoria gerarchica dei bisogni, dove le motivazioni umane sono innescate da una serie di bisogni ordinati secondo una gerarchia che porta a dover soddisfare quelli più semplici, elementari, prima che i bisogni di livello superiore possano avere una certa influenza nel determinare il comportamento di un individuo.
Maslow ha individuato come determinanti dei comportamenti motivazionali (cioè motivanti), nell’ordine, i bisogni di sopravvivenza (o fisiologici), i bisogni di sicurezza, i bisogni di appartenenza (amore), i bisogni di stima (o riconoscimento) e, a livello più elevato, i bisogni di autorealizzazione. Quindi, il comportamento sarà determinato dal bisogno che in quella situazione e secondo una ben definita gerarchia genera tensione e quindi motivazione.

10 – la percezione del nostro EMPOWERMENT– inteso come lo sviluppo e l’aumento di capacità, l’acquisizione di potere e responsabilità – o senso di autoefficacia, il quale influisce profondamente sulla motivazione, sostenendo gli sforzi necessari a raggiungere le mete prefissate.
Il concetto di
empowerment o di autoefficacia (self-efficacy) è predittivo del comportamento dell’individuo in quanto rappresenta l’insieme delle credenze relative alle proprie capacità di organizzare ed eseguire i comportamenti competenti richiesti (so che ce la posso fare). L’empowerment o senso di autoefficacia si forma:

  • – dall’interpretazione del proprio vissuto, delle proprie esperienze di successi e fallimenti,
  • – dall’osservazione delle esperienze di altri simili a noi,
  • – dall’incoraggiamento e dalla fiducia che gli altri ci danno
  • – dagli stati fisiologici (l’attivazione sotto stress può essere interpretata come segno di vulnerabilità o, al contrario, come energia a disposizione) e affettivi (l’umore con cui affrontiamo le situazioni che interpretiamo come soddisfazione o insoddisfazione)

L’empowerment ha una forte influenza sulla motivazione: noi eseguiremo una certa azione sulla base della convinzione che abbiamo di ottenere un certo risultato. Un elevato senso di auto-efficacia ci porterà ad intensificare gli sforzi in caso di difficoltà e a riprenderci rapidamente in caso di ostacoli o fallimenti (resilienza).
Restando sulla motivazione, Nietzche scrisse “
Chi ha un perché per vivere, sopporta qualsiasi cosa”.Quando mancano i perché, subentra il disagio profondo della personalità. Mentre un obiettivo chiaro e realistico dà senso alla nostra esistenza.
Come abbiamo visto, per modificare un comportamento non è sufficiente intervenire sulle conoscenze ma occorre verificare la presenza di una
motivazione profonda, cioè la disponibilità ad investire tempo ed energie per ottenere un certo tipo di risultato, indagando quindi sui nostri bisogni più profondi (sia manifesti che inconsci) e intervenendo sul senso di auto-efficacia.

11 – il proprio CARATTERE inteso come i tratti distintivi della nostra personalità, i punti di forza e quelli critici, come ci definiamo ma anche come ci vedono gli altri (Jo-Hary Window) e l’immagine di sé (self-concept).
Il 
carattere è la parte più profonda, a volte meno visibile ma quella che più risente degli aspetti emotivi: cerchiamo gli aggettivi che riteniamo ci descrivano meglio, in senso positivo (i nostri punti di forza) e in senso negativo (i nostri punti deboli).

La Jo-Hary window – o finestra di Jo-Hary – creata da Joseph Luft e Harry Ingham negli anni ’50 – esprime, nei suoi 4 quadranti, il grado di conoscenza che un individuo ha di sé, in termini di personalità, atteggiamenti, comportamenti, conoscenze, emozioni, capacità ecc. e il grado di conoscenza che gli altri hanno di quella persona.
Nell’area MANIFESTA – aspetti noti a sé e noti anche agli altri, detta anche area pubblica, o arena – sono presenti le caratteristiche del soggetto che sia egli stesso che gli altri conoscono (il nome, l’aspetto, alcune capacità, aspetti del carattere più evidenti, ecc.)

Nell’area NASCOSTA – aspetti noti a sé ma ignoti agli altri, detta anche area privata – troviamo quanto il soggetto conosce di sé, ma tiene riservato, non rivela (aspettative, eventi vissuti, problemi o alcuni aspetti della personalità che non mostra all’esterno)

Nell’area IGNOTA – aspetti ignoti a sé e anche agli altri, detta anche area inconscia – troviamo quanto è sconosciuto sia agli altri che al soggetto, un’area difficilmente esplorabile se non con tecniche psicodinamiche.

Nell’area CIECA – aspetti noti agli altri ma ignoti a sé stessi, è quella che ci interessa qui – troviamo le informazioni di cui gli altri sono consapevoli, testimoni, ma di cui il soggetto è inconsapevole (il modo di comunicare e gesticolare, modalità di relazione, atteggiamenti ecc.). E’ possibile acquisire queste informazioni richiedendole espressamente agli altri, tramite un feedback, ascoltando ciò che gli altri mi dicono su di me e che mi consentono di ampliare l’area MANIFESTA

L’immagine di sé (self-concept), infine, ha a che fare con il concetto di identità – ciò che riteniamo di essere, il sentirsi “distinti” da ciascun altra persona, l’idea che abbiamo di noi stessi, determinata dall’insieme di ricordi che ci riguardano e che è in continua evoluzione modificandosi con le esperienze che viviamo.
E’ composta da:

  • identità personale – formata da 2 componenti:
    • l’Io intimo – l’immagine che abbiamo di noi stessi, privata e non espressa, delle nostre caratteristiche personali,
    • e l’Io ideale – ciò che vorremmo essere
  • identità sociale o Io pubblico – l’immagine di sé che diamo agli altri
  • identità professionale – l’immagine di sé che diamo nei contesti di lavoro

Alla propria immagine di sé associamo una valutazione, positiva o negativa, che costituisce il senso del nostro valore, la nostra autostima.

La conoscenza del proprio carattere e della propria immagine di sé (soprattutto dell’Io ideale) assieme ai nostri bisogni e al nostro senso di auto-efficacia, determinano la motivazione necessaria a sostenere gli sforzi necessari per raggiungere le mete prefissate.

12 – le proprie ESPERIENZE formative e professionali (considerando sia i successi che gli insuccessi) e i momenti di transizione.
Rivedere la nostra storia rappresenta un momento di riflessione sul vissuto e ci rende consapevoli della percezione della situazione presente; indagheremo i momenti “critici” e gli eventi più importanti che hanno avuto su di noi un’influenza determinante.

13 – le proprie ASPETTATIVE e ASPIRAZIONI professionali: quale attività vorremmo poter esercitare, cercando di “scoprire” quali sono le competenze necessarie per rivestire quel ruolo: cosa è richiesto a chi occupa quella posizione e cosa deve saper fare.
Le aspirazioni vanno sottoposte ad un attento esame di realtà: siamo in grado di poter fare quel lavoro? quali competenze ci mancano? sono competenze che possiamo acquisire?  ecc.

14 – le CIRCOSTANZE DI VITA : sono le situazioni e le relazioni che possono agevolarci o porci dei limiti, le risorse di cui disponiamo e i nostri vincoli, che vanno valutati realisticamente: situazione economica, caratteristiche cognitive e psico-fisiche (ad es. condizioni di salute), grado di autonomia (ad es. possesso o assenza di mezzi di trasporto), condizione familiare ed esigenze relative, conoscenze o parentele influenti, impegni o interessi extraprofessionali, ecc.